Il nostro pane quotidiano

Potrebbe essere un Vermeer.

Lo rivedo ancora dopo tanti anni, quel nitido quadro mai dipinto, appeso al chiodo della mia mente.

Il busto chino sulla farina da amalgamare; le mani che ritmicamente arrotolano e distendono il morbido panetto; lo sguardo attento e perso sull’impasto che diviene sempre più consistente.

Un bagliore filtra dalle tendine di leggero cotone e con un lieve biancore fa risaltare l’essenza vitale dell’azione.

L’orlo delle maniche rimboccate sussulta sulle braccia scoperte e le dita candide sembrano fondersi con la massa impastata. Una ciocca di capelli ondulati sfugge dal raccolto imbastito dietro la nuca e si mette a oscillare come un ciondolo d’oro.

Vi è un ritmo perfetto nel gesto tante volte ripetuto, nei muscoli contratti e rilasciati come le corde di un’arpa, nella melodia del respiro che feconda la lievitazione come un silenzioso canto propiziatorio.

Mentre mi cullo nel suo ritmo calmante, il volto di mia madre si volge verso di me. Le sue labbra rosse di gioia sorridono ai miei occhi rapiti di bambina, incorniciando nella mia mente un capolavoro di umana semplicità.

Purtroppo quella fu l’ultima volta che la vidi fare il pane.

Il giorno dopo, solare come sempre, uscì di casa e… ritornò con una macchina impastatrice. Non fu più lei.

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